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Anno selezionato: 2024
data di pubblicazione: 06-11-2023
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Il campione di baseball per non vedenti racconta la sua rinascita a Bologna e nell’ambiente Fortitudo
Napoli e le sliding door della vita: «Non immaginavo di dedicarmi a questa disciplina, che è nata qui. Il futuro va affrontato trasformando le avversità in opportunità»
Giorgio Napoli, con lei non servono troppe parole per dimostrare che la pratica sportiva può aiutare ad attraversare la vita. «Lo sport è un modo importante per risorgere da momenti bui, ti cambia la percezione delle cose. Smetti di pensare a quello che ti è stato tolto, ti concentri su quello che ancora puoi tirare fuori da te stesso». Sulle diverse abilità, appunto, sul talento che uno non sapeva di avere. «Il nostro cammino è fatto anche di avversità. Puoi passare il tempo a maledirle, oppure puoi cercare di trasformarle in opportunità». Lei lo ha fatto trasferendosi a Bologna. «La vita mi ha portato qui in maniera inaspettata. Lavoravo a Londra, quando i miei problemi alla vista hanno iniziato a degenerare rapidamente. Credevo che il mio futuro sarebbe stato lassù, invece sono arrivato all’Istituto Cavazza, punto di riferimento per non vedenti e ipovedenti, che possono frequentare un corso di formazione professionale per la qualifica al ruolo di centralinista, e iscriversi agli elenchi del collocamento mirato. Però all’inizio il mio unico obiettivo era tornare a Capaccio Paestum, il paese in cui sono nato». Poi qualcosa è cambiato… «Ho capito, tramite un percorso anche riabilitativo, quello che potevo fare con la mia disabilità. Era giusto darmi una possibilità, restare in un posto che mi rendeva più autonomo e mi apriva delle porte. Bologna in questo è stata fondamentale». La sua vista l’ha tradita in un tempo relativamente breve. Il suo passato di sportivo praticante l’ha aiutata in qualche modo a reagire? «Sicuramente. Ho giocato tanti anni a basket. Dodici anni sul parquet, una passione vera. Ma dopo un infortunio rientrai e mi resi conto che avevo perso la visione di gioco, che prima era automatica. Del resto, sapevo a cosa stavo andando incontro».
Quando ne era diventato consapevole? «La mia era una patologia degenerativa, diagnosticata quando
avevo tredici anni, ma già alle elementari le maestre dicevano che non leggevo bene le scritte alla lavagna.
Si chiama retinite pigmentosa: io sono figlio di due disabili visivi per trauma, ma non è una questione ereditaria». Quando Bologna è entrata nel suo destino, ha scoperto che è stata la culla del baseball per non vedenti. «Al Cavazza hanno un programma specifico, un’idea bellissima: ci hanno fatto provare una serie di sport adattati per disabili visivi. Mai avrei pensato di giocare a baseball, quando me lo proposero pensai “ma come fa un cieco a praticare uno sport come quello?”. Non pensavo a qualcosa del genere, con quegli ausili». Tutte creazioni “made in Bo”, e la paternità va riconosciuta a due grandi campioni del passato, che purtroppo non ci sono più: Alfredo Meli e Umberto Calzolari.
«Alfredo è stato l’inventore, Umberto il braccio creativo. Lui, per dire, ha letteralmente “costruito” la pallina che utilizziamo, un oggetto in gomma, sul quale vengono praticati sei fori, con all’interno due campanelli, i “bubboli”.Gli avvisi sonori sono ovviamente fondamentali per noi».
Altre caratteristiche della disciplina? «La prima base ha un richiamo sonoro, come il clacson di una
Vespa, mentre su seconda e terza ci sono degli assistenti vedenti. Una squadra è composta da cinque non vedenti e un “vedente in seconda” in azione di difesa, munito di palette di legno. Fondamentale perché noi si possa essere reattivi durante le assistenze. In attacco si batte uno alla volta, o meglio si “autobatte”. La prima base è “di transito”, con l’assistente che suona le palette e ci dà il riferimento della seconda. Tutti siamo bendati, indipendentemente dall’ausilio visivo. Tra terza e casa base non c’è riferimento sonoro, ma una corsia di terra tra l’erba: dall’udito, la sensibilità che conta diventa il tatto».
Una disciplina che trasmette una fortissima comunità di intenti. «Le squadre sono miste, c’è una fortissima integrazione tra vedenti e non vedenti. Ci completiamo a vicenda. E si creano relazioni durature anche al di fuori del campo». Lei gioca e vince con i colori della Fortitudo White Sox, la creatura di Meli e Calzolari. Ci si sente in famiglia? «Tutto l’ambiente Fortitudo mi regala questa sensazione. Siamo
spesso coinvolti nell’attività di Unipol Sai, la prima squadra, ed è motivo d’orgoglio. La nostra attività ha a che fare con il sociale, poter diffondere la mission è una risorsa».
Del resto, anche la sua vera famiglia è nata intorno a un diamante… «Mia moglie Desirèe l’ho conosciuta a Casteldebole, in un ennesimo periodo no della vita. Non mi ero qualificato alla finale di Coppa Italia con la Roma, la squadra per cui all’epoca giocavo. Così, ero salito a Bologna a vedere una partita di amici e lei, che è una educatrice e lavora con le disabilità sensoriali, era lì per via di un tirocinio che stava svolgendo proprio al Cavazza. Oggi siamo qui, insieme: abbiamo due figli, Emma ed Edoardo».
Il baseball per non vedenti vede ancora l’Italia come Nazione guida. L’Associazione Italiana Baseball per ciechi e la Lega baseball per ciechi italiana hanno fatto opera di proselitismo. «In questi anni sono stati attivati diversi progetti nel mondo, anche a Cuba o in Pakistan, dove sono nate molte squadre. Francia, Germania, Olanda sono in forte crescita, ci sono progetti attivi in Ungheria e Slovenia».
Cosa ha provato quando è diventato campione d’Europa con la Nazionale?
«È stato bellissimo. Tre giorni emozionanti, intensi, un’esperienza che porterò nel cuore e che mi dà energia per andare avanti, non solo nel baseball giocato ma anche nella promozione della disciplina. La
mission dell’Associazione, di cui sono consigliere, è una ragione di vita».
Insomma, è vero che la vita può iniziare a quarant’anni?
«Decide la voglia che ci metti a viverla, indipendentemente da un limite che ti ha imposto. E un altro concetto è quello dell’accettazione: non sarà mai totale, ma da lì puoi rinascere e svoltare. A quel punto, l’età conta davvero poco».
LA SCHEDA
Chi è Giorgio Napoli
Nato a Capaccio Paestum, in provincia di Salerno, nel 1983, si è trasferito a Bologna per seguire corsi
professionali all’Istituto Cavazza, dopo che una malattia degenerativa lo ha reso non vedente. Con un passato da sportivo praticante, ha iniziato a giocare a baseball e la sua prima società è stata la Roma All Blinds. Nel 2017 è stato nominato “miglior matricola” del campionato italiano. Trasferitosi definitivamente alla Fortitudo White Sox, ha vinto con i colori biancoblù tre scudetti. Colonna della Nazionale italiana che l’8
ottobre si è laureata campione d’Europa battendo in finale l’Olanda, nel 2022 è stato premiato come Mvp della prima edizione del World Baseball Classic disputato a Beek, in Olanda. Lavora alla Procura Generale di Bologna.
di Marco Tarozzi
CORRIERE DELLO SPORT - STADIO
DOMENICA 5 NOVEMBRE 2023
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